Carlina: il suo utilizzo nella tradizione e in cucina

Pubblicato il Marzo 29, 2019 - Benessere

Carlina

 

La Carlina, o meglio Carlina acaulis L., è conosciuta da alcuni con il nome di Rapagnolo o Carciofo selvatico, o come l’erba che curò dalla peste l’esercito di Carlo Magno. Per altri invece il suo nome deriverebbe dalla deformazione di Cardina (da Cardus) e significherebbe “piccolo Cardo”, mentre acaule dalla morfologia della pianta: priva di caule (fusto).

 

Questa pianta selvatica era utilizzata come pianta alimentare in epoche di carestia, quando il ricettacolo carnoso del suo capolino si consumava sia crudo che cotto. Simbolo della fascia montana pascolativa, la Carlina, può diventare un decoro molto duraturo e apprezzato.

 

La Carlina è una pianta erbacea perenne che vive al livello del suolo e possiede grandi infiorescenze che possono arrivare ai 10 centimetri di diametro. Vive sui prati e gli alpeggi, in luoghi pietrosi e poveri.

Caratteristica per la sua rosetta di foglie basali profondamente vicine, con al centro un grande unico capolino di 6 – 12 cm di diametro. La Carlina è una piantina aderente al terreno, non ha fusto, le foglie sono grandi, dure e spinose.

Il genere Carlina, della famiglia delle Compositae, raggruppa una ventina di specie di piante erbacee, diffuse in Europa e Asia; perenni, spesso spinose, e caratterizzate dalla presenza di grandi capolini.

 

Questa officinale contiene come principi attivi: inulina, olio essenziale, tannini e sostanze amare.

Si usa la radice contenente inulina e derivati acetilenici (ossido di carlina), per le proprietà diuretiche, colagoghe ed antiedematose, e in decotto contro il raffreddore. Come tisana trova uso per insufficienze digestive e spasmi gastrointestinali. Anche se caduta in disuso è da sempre conosciuta per le proprietà eudermiche, da attribuire all’ossido di carlina.

La pianta trova indicazione anche nel trattamento di eczemi e acne.

 

Le popolazioni delle zone sub-montane e montane raccolgono il ricettacolo dei capolini immaturi, da consumare come succedanei del carciofo; si mangiano cotti oppure crudi in pinzimonio o in insalata. Il centro del fiore infatti, una volta liberato dalle spine e dalle foglie dure, che si presentano sulla parte esterna, ha consistenza simile a quella dei cuori di carciofo, di colore bianco, di aspetto granuloso e spesso ricoperto di lattice bianco. Il sapore ricorda quello del carciofo rispetto al quale ha però un gusto più delicato.

Il primo problema che si incontra quando ci si vuole nutrire di questo cardo è pulirlo. Armati di un coltellino affilato e di santa pazienza si tolgono via le rosette laterali lasciando solo il “cuore” che verrà quindi tagliato a fettine e posto in acqua acidulata con un mezzo limone per evitare eccessive ossidazioni che ne fanno virare il sapore e il colore.

 

GIULIA CALDARELLI

 

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